Oblificazione

da | #Racconti, Sci-fi, Thriller

Proteggere il Presente, Salvaguardare il Futuro.”
– Motto degli Oblificatori


L’archeologia è una pratica intrinsecamente destabilizzante; investigare il passato non è solo una questione di conoscenza, né di cultura per riempire i musei. Ciò che gli archeologi tacciono è il loro vile intento sovversivo: quello di mostrare ai cittadini del presente altri modi in cui le società del passato potevano vivere, sminuendo il progresso e il benessere che abbiamo ottenuto oggi.

Da oblificatore, disprezzo altamente questa crociata morale, ai miei occhi futile e insensata. Ma nonostante ciò non intendo attaccare gli archeologi direttamente. Esistono vie meno invasive, più socialmente accettabili e meno… violente. Appunto, l’oblificazione.

Questo è il mio lavoro, anzi: la mia missione. È ciò che spinge ogni giorno a premere il grilletto del deosteizzante e ciò che mi protegge dalla vista inquietante dei corpi flaccidi e ignari che agonizzano al suolo.

“Rilassati per una volta, Costa,” mi dice il tecnico della Macchina del Tempo, uno spilungone con la S sibilata che crede di sapere tutto. “Ti ho fatto una sorpresa oggi.”

“Sono emozionato,” dico senza guardarlo in volto mentre indosso la tuta ultramimetica. Il deosteizzante è pronto, dodici fiale bastano per una sessione.

“Lo vedo. Guarda dove ti mando stavolta,” un proiettore illumina il muro bianco della Sala Operativa. Il ronzio sommesso della Macchina del Tempo inizia a permeare l’aria. “Calabria, 951 AC. Guarda che panorama, tutto per te da ripulire.”

Le pinete vergini dell’Aspromonte si stagliano contro un mare di zaffiro, con spiagge sabbiose che collegano i due estremi. Quasi una lacrima sfugge alle mie palpebre, ma immediatamente la rabbia prende il sopravvento: non permetterò che alcun parassita stabilisca civiltà in queste terre purissime.

“Molto bene,” rispondo impassibile salendo i piccoli gradini della Macchina del Tempo. La spessa porta blindata si chiude alle mie spalle. “Avvistamenti, indizi?”

“Nessuno,” risponde il tecnico dall’interfono gracchiante con un colpo di tosse, “Solo ricognizione oggi. Ma come al solito, se trovi anima viva oblifica pure. Tanto paga il Ministero.”

“Facciamo dieci salti allora. Proiettami in un raggio di… venti chilometri?”

“Mare e montagna, eh? Va bene capo, siamo pronti,” l’interfono gracchia ancora, le luci interne della Macchina del Tempo iniziano a roteare sempre più veloce. “Al tuo via.”

Respiro profondo, chiudo gli occhi.

Inizia un altro giorno.

“Salto.”

Ogni suono sparisce, il mondo è buio e comunque vortica, lasciandomi senza punti di riferimento. La testa gira, si dissocia dalla realtà per un istante e in quello seguente ritorna in essa, o meglio, in una sua versione dimenticata.

Solo quando sento la sabbia sotto i piedi e l’aria fresca intorno alle dita riapro gli occhi: il panorama prima proiettato ora mi circonda, puro e immortale, i pini marittimi color smeraldo che ondeggiano nella brezza estiva davanti a me. Il fruscio delle placide onde tirreniche culla il mio udito.

Tre minuti.

Mi guardo intorno con cautela: dannato tecnico, non so nemmeno il suo nome per maledirlo a dovere. Trascino i piedi lontano dalla spiaggia e cerco di coprire le mie tracce; la tuta ultramimetica mi rende invisibile agli occhi dei primitivi, ma le impronte sulla sabbia li farebbero insospettire.

Ricognizione terminata, nessuna forma di vita senziente.

Richiudo gli occhi, sparisco, riappaio nella Macchina del Tempo. Il ronzio uniforme domina le mie orecchie.

“Fulvio, per l’ennesima volta: non sulla fottuta spiaggia,” parlo nell’interfono, prendo un respiro profondo prima del prossimo salto.

“See see,” risponde incurante mentre prepara il salto seguente. “Comunque mi chiamo Silvio, dovres-”

Altri tre minuti.

Nell’entroterra stavolta, sulle rocce chiare che discendono dai fianchi dell’Aspromonte costellate dagli aghi di pino e dalle pigne perfette.

Un ramo spezzato coglie la mia attenzione: seguo la traccia, i segni sulle cortecce, il fango smosso. Qualcuno è passato di qui.

Lo vedo: un pastore, gobbo e rozzo, vestito di stracci, si carica un cerbiatto sulle spalle. Come osa deturpare la bellezza di queste terre incontaminate?

Ritorno al laboratorio.

“Ne ho trovato uno. Saltiamo di nuovo, lo seguirò fino alle capanne.”

“Ok capo. Oblificali tutti,” mi incoraggia il tecnico con pressappochismo.

Ritorno sulle tracce del selvaggio. Mi conduce a delle capanne di paglia a valle, piccole e misere, vicino al litorale bianchissimo. Poco più in là, una grande grotta si apre direttamente sul mare cristallino.

Non ho molti salti rimasti, quindi non perdo tempo: prima che il villano arrivi al villaggio lo spingo a terra da dietro, e quello sorpreso ruzzola lungo il pendio roccioso. Molla la preda, grida, sbatte la testa contro un masso; ma mentre agonizza lo afferro per una spalla e gli punto il deosteizzante contro la clavicola.

Un lieve sibilo accompagna le convulsioni confuse del preistorico, schiuma alla bocca mentre i suoi arti perdono consistenza e si afflosciano al suolo. I denti diventano gelatinosi e trasparenti, colano via dalle gengive. Non rimane che una pozza di carne deforme.

Ritorno al laboratorio.

“Il primo è fatto,” spiego al tecnico aggiustandomi la tuta. “C’è un piccolo villaggio, coordinate +15x e -72y. Sette salti dovrebbero bastarmi.”

Nessuna risposta.

Il villaggio appare intorno a me, i suoi grotteschi abitanti ignari della mia presenza continuano le loro incolte attività di sussistenza. Il mio indice freme contro il grilletto del deosteizzante, pronto a oblificare l’intera comunità.

Un brivido pungente mi attraversa la schiena da cima a fondo, il cuore salta un battito.

Vertigini.

Nausea.

Le gambe mi cedono, prive di ogni forza. Mi inginocchio, ma anche quello non basta; cado bocconi, il volto a pochi centimetri dalla terra fredda.

“Beccato.”

Tento di voltarmi, ma non ci riesco: i muscoli pulsano ma non sento più la nuca, né le guance o la mandibola. I miei occhi scivolano lungo il volto, intravedono giusto un’ombra controsole.

“Belle scarpe. Ne ho un calco in ufficio.”

Gli archeologi ci hanno scoperto.

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Clockwork

Fisico teorico fallito che prova a scrivere e insegnare. Sinistroverso, controverso e... mi sono perso.